In epoca di protezionismo l’accordo di libero scambio in Africa mostra come la collaborazione tra stati può essere proficua, benché non sia garanzia di progresso. Così la Cina vorrebbe approfittarne
Domenica 7 luglio è stata lanciata ufficialmente la zona di libero scambio continentale africana nota come AfCFTA (African Continental Free Trade Area). Si tratta di un accordo commerciale tra i più grandi del mondo non per il volume di beni e servizi scambiati, ma per il numero di paesi coinvolti dai tempi del Wto (Organizzazione mondiale del commercio). L’AfCFTA si prefigge lo scopo di aumentare in maniera esponenziale i rapporti commerciali, e indirettamente economici e finanziari, tra i vari paesi aderenti. Una sorta di completa liberalizzazione del commercio mirata a fare da apripista a ulteriori collaborazioni. I paesi africani sembrano avere finalmente capito che chi fa da sé fa per tre. Agire sulle regole commerciali internazionali affinché possano adattarsi alle richieste e alle esigenze dei paesi in via di sviluppo si è rivelato una chimera, un falso miraggio. Tentativi, per quanto lodevoli, come quelli degli accordi Unctad (Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo) del 1964, hanno mostrato come i grandi paesi industrializzati, cioè coloro che dominavano in quel momento il mercato, non avevano nessun interesse a modificare le regole esistenti che li mantenevano in una posizione di vantaggio. L’AfCFTA si muove così in questa direzione: creare un’area di libero scambio esclusiva per i soli paesi africani, cioè per coloro che hanno più sofferto nel tempo politiche commerciali che non tenevano fin troppo in considerazione le proprie esigenze di sviluppo.
Il punto forte dell’accordo è la creazione di un area di libero scambio che coinvolge 1,2 miliardi di persone, e di possibili nuovi consumatori, capaci di innescare un potenziale effetto di stimolo e crescita del settore industriale. Il peso dell’industria manifatturiera sul pil dei paesi aderenti all’Unione africana è del solo 10 per cento. Secondo le stime effettuate dalla Commissione economica per l’Africa delle Nazioni Unite (UNeca), se i paesi aderenti adottassero politiche prodighe ad incentivare la produttività locale, il commercio tra i paesi aderenti potrebbe aumentare del 52 per cento da qui al 2022, stimolando un reddito complessivo di circa 2,8 miliardi di dollari all’anno: una cifra assai consistente.
Con l’adesione da parte della Nigeria,i paesi associati a questo ambizioso progetto salgono a 54: un numero molto vicino alla totalità dei paesi presenti sul continente. La firma da parte di questo popoloso stato è stata a lungo attesa, viste le riserve espresse a più riprese. Abuja, capitale nigeriana, temeva che le proprie manifatture potessero subire una pericolosa concorrenza capace di spazzare via un settore ancora delicato e aumentare conseguentemente la disoccupazione. Prima economia del continente e paese più popoloso della regione, a conti fatti la Nigeria si può candidare come uno dei possibili maggiori beneficiari della creazione di un’area di libero scambio così grande. La vastità del mercato combinata allo stimolo dell’attività industriale quale punto focale della crescita del paese nell’immediato futuro, a dispetto di una crescita indotta dall’export di materie prime, può rendere il paese centroafricano un plausibile candidato a giocare un ruolo economicamente egemone nella regione. La promozione del made in Nigeria sul continente è un canto suadente per il settore privato del paese, che vanta, tra gli altri, settori leader nel campo della moda e del cinema. Chiaramente la necessità di aumentare la propria competitività e di rendere il paese attraente per gli investitori sarà un prerequisito fondamentale per imporre la propria economia al centro del costituendo mercato. Nel complesso Nigeria (pil 450 miliardi di dollari), Egitto (332 miliardi di dollari) e Sudafrica (295 miliardi di dollari), le prime tre potenze economiche del continente, potrebbero collocarsi come i paesi leader dell’AfCFTA nei settori produttivi con un più alto valore aggiunto, mentre un paese come l’Etiopia potrebbe beneficiare della propria posizione strategica e delle proprie infrastrutture di connessione per diventare il futuro hub del continente africano.
E i paesi più deboli o arretrati? Rimangono infatti grandi interrogativi in merito alla gestione delle pronunciate disparità economiche vigenti tra i futuri partner. Dubbi sorgono sulla capacità dell’AfCFTA di permettere una condivisione più equa di ricchezza, conoscenze e competenze; voci dissidenti mettono in dubbio la possibilità che l’accordo sia conveniente per tutti. I paesi economicamente più forti potrebbero infatti sfruttare le aperture del nuovo mercato per estendere i propri confini economici a danno dei paesi periferici. Certo è che la progressiva eliminazione di molte delle tariffe doganali si ripercuoterà sulle entrate degli stati più deboli rischiando di ridurre i già pochi servizi sociali erogati alla popolazione. Questo può condurre, de facto, ad un aumento delle disparità e, conseguentemente, ad un indebolimento dell’autorità dello stato in sé, con ripercussioni sull’ordine pubblico e sulla stabilità politica. Riserve ulteriori rimangono sulla reale mobilità del lavoro e di capitali nell’area, elementi essenziali per riequilibrare e ridistribuire i vantaggi che l’accordo si vanta di promuovere.
Per raggiungere gli ambiziosi obiettivi prefissati, l’AfCFTA verrà affiancata da ulteriori accordi capaci di stimolare tout court la crescita potenziale dei paesi dell’area. Per favorire la crescita economica non basta promuovere il solo libero scambio. L’Unione africana ha lanciato la proposta per la creazione di un singolo mercato dei trasporti per aumentare la connettività e tagliare i costi nonché per l’istituzione di un unico passaporto per accrescere la mobilità all’interno dell’area di libero scambio.
Memori di un primo tentativo di creazione di un’area di scambio preferenziale (Comesa, mercato comune dell’Africa orientale e meridionale), figlia dell’epoca della decolonizzazione negli anni Sessanta, gli attuali governanti sono decisi a fare funzionare il nuovo ambizioso accordo. Le politiche necessarie di convergenza dovranno aiutare tutti i paesi ad alzare i propri standard di vita ridistribuendo i proventi derivati dall’accordo di libero scambio.
Come consuetudine in questioni che riguardano l’Africa, l’accordo AfCFTA non è solamente una questione interna al continente. Nel gioco di pesi e contrappesi che regola le influenze straniere in Africa, la Cina non ha mancato di giocare le sue carte. Gli eredi del Celeste impero infatti si trovano in una posizione di avanguardia sia rispetto agli Stati Uniti che all’Europa. Pechino ha firmato accordi bilaterali con più di 40 paesi nel continente africano. Dal 2000 al 2017 il volume degli affari tra i due blocchi è passato da 10 miliardi di dollari a 148 (dopo aver raggiunto picchi di 220 miliardi nel 2014 per questioni legate anche al prezzo delle materie prime). I dati che si limitano ai soli scambi commerciali ci mostrano però solo la punta dell’iceberg. Il finanziamento di infrastrutture con capitali, tecnologia e manodopera cinese, pone Pechino all’avanguardia nella gestione del boom economico del continente. Secondo l’analista Devonshire-Ellis, è solo questione di tempo prima che le produzioni a basso valore aggiunto e scarso apporto tecnologico si spostino in Africa costringendo la Cina a guardare verso ovest per continuare a comprare i necessari prodotti a basso costo. Pechino è quindi assai interessata a mantenere una posizione di leadership sul continente; difficilmente non vorrà avere influenza in ciò che riguarda l’AfCFTA facendo appello ai vari accordi bilaterali firmati con i paesi aderenti all’area di libero scambio.
Dopo la Cina, c’è sicuramente l’Europa. L’esistenza degli accordi Epa (Economic partnership agreement) tra l’Unione europea e i paesi africani aderenti potrebbe essere un fattore non trascurabile, in positivo ma anche in negativo, per la nuova area di libero scambio: l’Europa, al pari della Cina e degli Stati Uniti, potrebbe usare gli accordi già esistenti per entrare fin da subito nel ghiotto accordo ritagliandosi uno spazio di manovra. Un “cavallo di Troia” ricolmo di investimenti, merci e tecnologia da esportare al riparo dalle varie legislazioni e ostruzioni dei paesi aderenti all’AfCFTA.
Fonte: ilfoglio.it