L’Africa batte un colpo in controtendenza rispetto alle pulsioni protezionistiche che percorrono il sistema del commercio internazionale. All’inizio di giugno è entrata in vigore l’African Continental Free Trade Area (AfCFTA) a seguito della ventiduesima ratifica depositata da uno dei 52 stati firmatari dell’accordo. La nuova area di libero scambio – una delle più grandi del mondo per numero di economie partecipanti – prevede l’eliminazione di dazi e quote sul 90% delle merci che attraversano i confini interni al continente, permettendone il mantenimento, per una fase transitoria, solo sul restante 10%, ritenuto ‘sensibile’ dai paesi che prendono parte al progetto. La liberalizzazione riguarda anche il settore dei servizi. La creazione di un vasto mercato di beni e servizi che abbracci l’intera regione è parte di un percorso più lungo che prevede come stadi successivi, in un futuro non ancora prossimo, l’unione doganale e quella monetaria.
Il sogno dell’integrazione del continente africano è stato evocato da vari leader della regione fin dall’epoca delle prime indipendenze, tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. In pratica, tuttavia, la sua realizzazione ha incontrato una lunga serie di ostacoli di vario genere: dalla diversità di vedute e interessi dei singoli paesi, alla scarsità di risorse a disposizione e alle limitate capacità di implementazione, fino alla necessità di stabilizzare o controllare le aree di crisi prima di rendere i confini più aperti.
Il Trattato di Abuja del 1991 ha da tempo tracciato la strada da seguire per l’integrazione economica continentale verso la costruzione di un’African Economic Community (AEC), una strada fatta propria dall’Unione Africana (AU) quando, nel 2002, ha sostituito la precedente Organizzazione dell’Unità Africana rilanciando le ambizioni comuni. In un continente grande quasi cento volte l’Italia, ma composto da economie di dimensioni per lo più ancora esigue (circa 25 paesi su 54 non raggiungono i 10 miliardi di dollari di Pil) e con livelli comparativamente bassi di commercio intra-regionale (circa il 17-18% del totale del commercio estero dei paesi africani, una quota molto contenuta – in Europa tocca il 70% – in parte legata alla scarsa specializzazione o complementarietà tra le economie dell’area), ridurre la frammentazione e aumentare dimensioni e interconnessioni economiche è indispensabile.
Proprio per l’ampiezza dell’area geografica in questione e per le limitate capacità degli stati che ne fanno parte, l’Unione Africana ha sostenuto le iniziative che “partono dal basso”, puntando sull’estensione e il rafforzamento dei legami interni a otto “comunità economiche sub-regionali” intese come pilastri sui quali il progetto di integrazione continentale deve poggiare. Molto di quanto si è cercato di fare in questi anni – per la verità con progressi sempre lenti e faticosi – è pertanto avvenuto all’interno di queste comunità, e in particolare in quelle più dinamiche come la Southern African Development Community (SADC), la East African Community (EAC) e l’Economic Community of West African States (ECOWAS).
Con l’AfCFTA, oggi è arrivato il momento di tornare ad aggiungere un tassello su scala continentale. I benefici attesi sono anzitutto la graduale espansione del commercio intra-africano e, attraverso di esso, l’impulso ai processi di sviluppo e diversificazione economica – nonché di lotta alla povertà – per gli stati della regione. La nuova area dovrebbe anche ridurre la vulnerabilità delle economie africane all’andamento dei prezzi delle commodities e creare mercati più grandi e attrattivi per gli investimenti provenienti da altre parti del mondo.
Ma le resistenze non mancano, e sono legate per lo più ai timori di esporre alla concorrenza le imprese ancora fragili che caratterizzano buona parte delle economie del continente. Tre paesi hanno per ora rinunciato a firmare l’accordo. Si tratta di Eritrea, Benin e, soprattutto, Nigeria. Il governo di Abuja è stato a lungo oggetto di pressioni da parte delle associazioni industriali e sindacali allarmate dall’idea dell’apertura. Quella nigeriana è l’economia più grande del continente, e dunque una sua convinta partecipazione alla nuova area di libero scambio è essenziale per il successo dell’iniziativa. Alla fine la firma arriverà: se è difficile pensare ad un’AfCFTA che faccia a meno della Nigeria, è altrettanto improbabile che un paese che si vuole leader nella regione si tenga al di fuori di questo nuovo percorso. Al di là delle formali adesioni nazionali, attraverso firme e ratifiche dell’accordo, tuttavia la realizzazione dell’intero progetto dipenderà dalla sua effettiva implementazione, con la complessa adozione, da parte di tutti gli stati che ne prendono parte, delle regolamentazioni specifiche richieste affinché l’abbattimento delle barriere al commercio diventi operativo. Occorrerà tempo – alcune stime parlano di un decennio – perché questo processo venga gradualmente completato e perché la liberalizzazione inizi a produrre i suoi effetti. Ma il lancio dell’AfCFTA manifesta e conferma comunque il consenso prevalente nel continente circa il fatto che apertura economica e integrazione regionale debbano essere una componente centrale delle strategie di sviluppo dei paesi africani.
Fonte: ispionline.it